fotografo italiano * corea del sud * standardizzazione
Filippo è un amico, un concittadino, ma soprattutto un fotografo di talento. Nel 2015 è andato in Corea del Sud per fare un reportage sulla corsa alla modernità, che è contemporaneamente la fortuna e la piaga del paese. Con questo lavoro ha vinto il secondo premio al Sony World Photography Award 2016.
Ciao Filippo, prego, presentati pure!
Sono nato a Cesena nel 1980. Sono un fotografo e mi occupo di reportage, documentari e lavori commerciali. I miei lavori sono stati pubblicati su riviste e quotidiani come The Washington Post, Die Zeit, Internazionale, La Stampa, Geo, Marie Claire, Vanity Fair, Io Donna/Corriere della Sera. Collaboro con alcune agenzie, in Italia e all’estero, per progetti pubblicitari. Mi dedico inoltra a storie e progetti personali in cui approfondisco temi e problemi che ritengo interessanti da approfondire e portare all’attenzione delle persone, proprio come il mio progetto Made in Korea, sui giovani della Corea del Sud. (il sito di Filippo)
Come mai hai scelto la Corea del Sud? C’eri già stato prima di realizzare il tuo progetto?
Non ero mai stato in Corea del Sud prima. La mia compagna lavora nel settore turistico e del marketing alberghiero. Nel 2014 stava lavorando ad un dossier sulla Corea del Sud e mi capitò di leggerlo. Ho così iniziato a fare più attenzione alle notizie che riguardavano quel paese.
Ho scoperto l’esistenza di alcuni fenomeni interessanti, comuni in diversi paesi (Giappone, alcune zone della Cina, la Corea del Sud e altri).
Ho scelto la Corea del Sud per vari motivi.
Innanzitutto perché ho notato che si tratta di una realtà poco raccontata in fotografia e che spesso, anche in ambito news, viene trascurata a favore della più “stravagante” Corea del Nord.
In secondo luogo perché mi sono accorto che, in qualche modo, la Corea del Sud estremizza questi fenomeni: ha la percentuale più alta al mondo di laureati fra i 25 e i 34 anni, è il paese più avanzato tecnologicamente in ambito informatico, i giovani fanno un uso spasmodico della chirurgia plastica e le sue cliniche attraggono clienti dall’estero (cinesi e giapponesi soprattutto), sia per la qualità degli interventi e sia per i costi contenuti, e anche i relativi effetti collaterali sono fra i più preoccupanti, nel paese infatti avvengono addirittura 43 suicidi al giorno.
Qual è stato il tuo itinerario? Dove hai realizzato le tue fotografie?
Nel 2015 ho attraversato la Corea del Sud, partendo da Seoul, arrivando al confine nord per poi scendere nell’estremità a sudest, fino a Busan, passando da ovest al ritorno!
Puoi raccontarci il tuo metodo di lavoro, prima di lasciare l’Italia e durante il tuo viaggio in Corea del Sud?Come hai scelto chi fotografare?
Il mio lavoro, nel complesso, è durato circa 1 anno. Nella prima parte, durata molti mesi, ho raccolto informazioni sui progetti fotografici già svolti su quel paese e leggevo tutti gli articoli che uscivano sulla stampa internazionale. In seguito ho pianificato le tappe del mio viaggio, ho preso contatti con abitanti del posto che fossero disponibili a raccontarsi e a farsi ritrarre, ho scelto quali luoghi visitare e ho trovato una persona che mi facesse da traduttrice e da fixer, infine ho fissato le date del viaggio.
Oltre a cogliere dei momenti e a mostrare la realtà che ho deciso di raccontare, inserisco dei ritratti frontali per stabilire un contatto diretto con l’osservatore (è una pratica che utilizzo fin dai miei primi progetti). Sono ritratti molto poco guidati, semplicemente scelgo il luogo e il genere di persona che vorrei ritrarre (ad esempio una sala di una Università, dove vorrei ritrarre uno studente) e chiedo a chi incontro se è disponibile. L’unico accorgimento che prendo è la richiesta di non sorridere, mentre sulla postura e tutto il resto lascio piena libertà, anche perché questi dettagli definiscono il carattere della persona e le loro abitudini; è notevole ad esempio la differenza di atteggiamenti fra i ritratti che ho realizzato negli Stati Uniti con quelli realizzati in Corea del Sud.
La famiglia coreana: raccontaci di più! Sembrano così felici e affettuosi.
La famiglia che ho ritratto stava aspettando di essere fotografata su un green-screen a cui verrà aggiunto un paesaggio marino dell’Acquario della città portuale di Busan (nella punta sud-est della Penisola).
Non ho passato molto tempo con le famiglie coreane, ma in linea di principio penso di poter confermare che sono affettuose e felici.
C’è molto rispetto da parte dei loro figli, ma anche il forte timore di deludere i genitori se i risultati a scuola non fossero buoni
Corea del Sud e Soju: qual è il legame?
Il soju è il liquore coreano per eccellenza e nel 2011 è risultato il superalcolico più venduto al mondo, nonostante si beva quasi solo in Corea. Bere alcol, specialmente soju (eccovi un approfondimento sul soju), è un evento sociale diffuso tra amici e colleghi. Quando non lavorano, i coreani spesso festeggiano gli ultimi affari fatti e scaricano lo stress nel soju. Normalmente sono gli stessi capi che trascinano i dipendenti a bere e rifiutare i vari giri di soju è considerato scortese. È frequente la sera, soprattutto nel weekend, vedere ragazzi crollare per strada dopo aver esagerato con il bere.
I ragazzi Coreani sono costretti a studiare 15-16 ore al giorno: hai avuto l’occasione di incontrarli e parlargli?
Ho avuto l’occasione di intervistare alcuni studenti universitari che mi hanno raccontato la loro esperienza alle scuole superiori, che rappresentano il periodo più duro. Con l’inizio della scuola superiore comincia “l’inferno” per gli studenti coreani.
Si raggiungono anche 21 ore di studio al giorno
Le ore che i ragazzi dedicano allo studio sono tantissime, soprattutto durante l’ultimo anno a causa della preparazione al test di ingresso per l’università, il CSAT: da questo esame dipenderà il futuro di ogni studente e l’entrata o meno nelle più prestigiose università.
I Coreani sono molto gentili ed educati fra di loro: come si concilia questo aspetto con l’alta competizione presente nel mondo del lavoro e negli studi? Fingono?
Penso che possa esserci una componente di ipocrisia, ma penso anche che la competizione sia principalmente incentrata sul migliorare se stessi e non sull’invidiare o l’odiare gli altri.
Questi aspetti sono entrambi estremamente radicati nella loro cultura. Come in generale tutte le popolazioni dell’Estremo Oriente, il popolo coreano è molto gentile, disponibile e rispettoso nei confronti degli altri, specialmente di quelli più grandi (anche solo di pochi anni più grandi) e che hanno un grado gerarchico superiore. Questi aspetti coesistono in un paese estremamente ambizioso e pretenzioso nei confronti dei propri abitanti, specialmente i più giovani che crescono pensando di dover essere i migliori in tutto e che porta a non avere uno spirito di comunità molto sviluppato
Fuori dalle grandi città (Seoul, Busan, Daegu) tutto è diverso: noi non abbiamo visto competizione fra le persone o isolamento sociale. E’ stato così anche per te?
Fuori dalle grandi città i ritmi di studio e lavoro sono più attenuati, i problemi sono meno pressanti e la qualità della vita ne trae quindi beneficio.