un racconto di Matteo Di Giulio
Possono bastare cinque giorni per conoscere una città? Se la città non è piccola, come nel caso di Riga, capitale della Lettonia, la risposta è semplice: no. Riga, con quasi settecentomila abitanti spalmati su una superficie di poco più di 300 km² (circa un terzo più grande di Milano), richiede tempo e pazienza. Forse occorre allora chiedersi se valga comunque la pena di parlare di un luogo così particolare, visitato in un periodo molto delicato – a fine inverno, pochi giorni prima del lockdown dovuto all’emergenza Coronavirus – e in questo caso la risposta è opposta alla precedente: sì.
Atterro in tarda mattinata – non manca di stupirmi che i lettoni applaudano i piloti, come succedeva anni fa in Italia – e, appena metto piede fuori dall’aeroporto, vengo assediato dai taxisti, regolari e abusivi, che si offrono di portarmi a destinazione. Rifiuto in inglese e subito smettono di insistere: con quindici euro acquisto un biglietto per i mezzi pubblici che mi permetterà di muovermi liberamente per cinque giorni. Considerato che il biglietto normale costa più di due euro e cinquanta è una soluzione conveniente. Non senza difficoltà individuo l’autobus di cui ho bisogno: l’unico che ogni mezz’ora fa la spola con la città.
«È corretto per il centro?», chiedo.
L’autista grugnisce. Decido di prendere quella non risposta per un sì e salgo a bordo.
Mentre l’autobus si mette in moto, gli altoparlanti trasmettono una musica molto melodica in una lingua che sembra russo. Potrebbe essere un emulo lettone di Al Bano, ma non oso aprire Shazam per identificare autore e titolo. Mi guardo attorno: sono tutti biondi, massicci e con gli occhi chiarissimi; le donne hanno capelli lisci e incarnato diafano. Pur vivendo da diversi anni in Germania non sono abituato a una tale omogeneità. I sobborghi di Riga scorrono dal finestrino. Sono grigi, decadenti, proprio come ci si aspetterebbe da una periferia post-sovietica degli anni Settanta, sebbene io non abbia mai visto una periferia post-sovietica negli anni Settanta: a volte l’immaginario vince sulla realtà. Capannoni dall’aspetto trascurato, grandi blocchi abitativi squadrati, finestre dai vetri rotti. Sensazione d’abbandono totale.
Il mio Airbnb, una stanza singola con bagno condiviso, è in pieno centro. Quando arrivo al portone dove si trova l’appartamento, digito il codice d’ingresso e vengo accolto da una musica midi fatta da un sintetizzatore che riproduce una melodia sovietica sdolcinata. Camera spaziosa, arredamento piuttosto pacchiano, ma pulita e ordinata: per meno di dieci euro a notte non posso pretendere di più. Al centro del bagno c’è uno strano tubo dipinto a mano: è il riscaldamento. La lavatrice sta andando, sebbene non ci sia nessuno nelle altre stanze e non abbia incontrato nessuno sulle scale.
Decido di visitare il centro, macchina fotografica al seguito, nonostante la minaccia della pioggia e il sole che già comincia a tramontare. Non avevo previsto l’ora di fuso orario, qui è più tardi che in Germania o in Italia. Le strade sono un incubo e le macchine possono circolare praticamente ovunque, anche davanti all’imponente chiesa di San Pietro, il cui campanile, uno dei più alti d’Europa, sovrasta la città. Mi aggiro curioso, senza una méta precisa, e l’idilliaco borgo medievale che costituisce il nucleo di Riga mi affascina.
La città, la seconda più antica dell’antica lega anseatica che si affaccia sul Mare del Nord – dopo Lubecca – conserva tutto lo splendore della gloria passata. Le strade sono fatte di sassi e pavé; le grandi case a due o tre piani un intarsio di legno, mattoni e calce. I tetti scuri e i colori delle facciate mi ricordano la città dove vivo, Brema, a sua volta capitale anseatica, che è gemellata con Riga: con mia grande sorpresa proprio nel cortile posteriore della chiesa si trova una scultura che raffigura i musicanti di Brema, dalla fiaba dei fratelli Grimm, mentre nella piazza più centrale, dove spiccano l’imponente municipio e la Casa delle Teste Nere, costruita da un ricco mercante secoli orsono per dimostrare al mondo intero la propria influenza commerciale, si trova una grande statua del Roland, il paladino descritto da Giovanni Boccaccio, simbolo dell’indipendenza di molte città del Nord d’Europa.
Proseguo verso il fiume Daugava, che ho intravvisto dall’autobus, e m’imbatto in un enorme monumento sovietico che nella guida che ho con me non è nemmeno menzionato. Tre giganteschi uomini con colbacco, forse soldati, forse rivoluzionari: linee squadrate, rigore militare. Intorno un chiosco della catena Narveseen – sono ovunque, scoprirò –, un enorme parcheggio e i ponteggi aggrappati alle facciate degli edifici rovinati. Il panorama fluviale è mozzafiato. Il ponte ferroviario, alla mia sinistra, è illuminato di blu, e insieme alla sagoma della biblioteca nazionale, fiore all’occhiello dell’architettura lettone, cattura subito la mia attenzione. A destra chiude la composizione il moderno ponte Vanšu. Il freddo è pungente e dopo un paio d’ore di scatti, visto che la mia è soprattutto una vacanza fotografica, sono soddisfatto: ora cerco un posto per mangiare.
Ci sono decine di locali turistici eppure economici. Con sette euro ordino un enorme piatto misto con diversi tipi di insalate, riso, legumi, pane con aglio e un dolce al cucchiaio a base di frutti di bosco. La birra è leggera, ma con un proprio carattere. Le cameriere indossano costumi tradizionali e tutti in città parlano un buon inglese. Essere vegetariani a Riga non sembra un problema. I menù sono spesso anche in inglese e se la selezione sui cartelli appesi fuori non è illimitata, bisogna entrare e sfogliare la lista delle vivande, dove c’è sempre molto di più da ordinare.
Il giorno dopo cambio quartiere, con l’intenzione di dedicarmi anche ai musei. Prima, però, voglio trovare un posto per fare colazione. Mi sono svegliato troppo presto, prima delle dieci è tutto chiuso. Manca ancora un’ora, che inganno passeggiando per il centro, notando particolari che il buio mi aveva celato: un sondaggio nel 2013 aveva eletto Riga città più bella d’Europa, prima di Budapest, Praga o Venezia. Non è una scelta del tutto casuale, penso. La sorpresa più grossa è la qualità del caffè: pari quasi a quella italiana. Anche i bar appartenenti alle catene locali, come Golden Coffee o Caffeine, offrono eccellenti cappuccini e torte al miele o al cioccolato. I prezzi non sono abbordabili, circa 2.50 per un caffè, 4 euro per la colazione completa, anche se in linea con quelli tedeschi, eppure tutti i posti in cui vado durante la mia permanenza sono sempre pieni, soprattutto di giovani e di studenti.
Nel mio programma ci sono soprattutto due musei: quello d’arte lettone, che si trova a Centrs, e quello della fotografia, che mi incuriosisce a partire dall’aneddoto che le piccole Minox sono state inventate e prodotte proprio qui. Quello della guerra, gratuito, è enorme e merita la visita. Sito all’interno dell’antica torre delle polveri, risalente al 1330, illustra in cinque piani tutta la storia bellica del paese, dai periodi in cui combatteva contro la Svezia per il predominio del Baltico sino ai giorni nostri e alle missioni di pace per conto dell’ONU. Dove sorgevano le antiche mura si trova ora un lungo parco che fiancheggia quello che era il canale a difesa della città. Mentre mi perdo tra i sentieri in cui fiori e piante incominciano ad accorgersi della primavera prossima ventura mi accorgo che i padiglioni in stile liberty disseminati qua e là nascondono pasticcerie e panetterie che per pochi spiccioli vendono dolci squisiti.
Dal centro storico mi sposto verso Centrs, uno dei quartieri sovietici, famoso soprattutto per le case in Jugendstil, dichiarato proprio per questo motivo patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Facciate eleganti, ricche di incisioni e bassorilievi, raffinati affreschi e portoni intarsiati in stile Art Déco conducono fino all’omonimo Museo Jugendstil, dove ceramiche e oggetti pregiati sono un must see. Gran parte di queste architetture si devono al genio di Michail Ėjzenštejn, padre del famoso regista Sergej, quello della Corazzata Potëmkin. Il museo d’arte lettone (7 euro l’ingresso, che comprende la collezione permanente e diverse mostre temporanee), riaperto di recente dopo una lunga fase di ristrutturazione, è incredibile. Quadri, sculture e anche una sezione dedicata alla fotografia in bianco e nero di artisti a me sconosciuti, come la bravissima Māra Brašmane. Riga vanta una serie di fotogiornalisti e fotografi street di tutto rispetto, come Inta Ruka o Gunārs Janaitis. L’arte lettone, così come quasi tutto qui, vive un prima e un dopo l’annessione all’URSS: espressionismo e razionalismo lasciano il posto a protesta e un modernismo astratto molto politico. Qui trovo la maggior parte dei regali per amici e parenti.
Mangiare, mi rendo conto mentre vago per Centrs, non sarà mai un problema. Decido però di provare uno dei posti più interessanti secondo la guida, il mercato centrale. Mi faccio scarrozzare da un affascinante tram a due vagoni fino ai tre hangar per dirigibili nel quartiere Maskavas forštate (che si traduce più o meno come sobborgo moscovita), che oggi sono stati riconvertiti in una delle attrazioni più importanti della città, non solo per i turisti. Nei vecchi magazzini portuali, che tanto ricordano quelli di Amburgo, hanno aperto locali per hipster, parrucchiere alla moda e ristoranti sperimentali con ambizioni da stelle Michelin. All’interno degli hangar, invece, si respira il profumo della tradizione popolare e del buon cibo. Provo ricette caucasiche a base di uova e formaggio (con 5 euro si mangia in abbondanza), su un impasto non lontano da quello della pizza. Le sensazioni che trasmettono corridoi ricchi di colori e di volti sono una splendida storia a sé.
Il mio viaggio prosegue, spesso piove e nonostante io sia sempre l’unico ospite dell’Airbnb, la lavatrice è sempre in funzione. Il monumento per le vittime dei pogrom nazisti, così come molte dei palazzoni a otto, nove piani di chiara origine russa, è abbandonato a se stesso. La sensazione di decadenza è confermata da ogni passeggiata: facciate sbeccate, balconi che si sbriciolano, infissi inesistenti e, un po’ ovunque, casermoni e fabbriche vuote. L’Istituto delle Scienze permette, per sette euro (compresa trattativa con l’anziana addetta ai biglietti, che non parla inglese e che non ha mai il resto, ma inventa sempre soluzioni creative), di salire fino al diciassettesimo piano e godere dalla terrazza della panoramica più affascinante di Riga: dall’alto, a 360°. Il vento è gelido e tagliente, ma ne vale la pena. Trascorso un altro giorno, dopo aver assaggiato per cena una zuppa ai funghi che al posto del piatto viene servita in un panino svuotato e delle deliziose frittelle di patate (9 euro per la cena completa, con un boccale di birra media), posso pensare a cosa farò il giorno successivo.
L’idea è di affidarmi al caso, una tecnica che già in passato mi ha regalato gradite sorprese: salgo su un tram senza conoscere la destinazione e mi affido al destino. Supero il ponte, sotto il quale una serie di ristoranti sono barche ancorate e riadattate, e mi trovo dall’altra parte del fiume, a Ķengarags, oggi quartiere creativo e hipster. Il barista dove mi fermo a fare colazione – cappuccino e torta di mele – mi chiede se sono tedesco. Quando scopre che sono italiano mi fa vedere il caffè che usa – la macchina è una Cimbali – e mi chiede se conosco la marca.
«Pellini», confermo io.
«Prima usavo solo Illy», mi spiega, «ma questo mi sembra più buono».
Non mi aspettavo una conversazione del genere a Riga, ma a Napoli o a Firenze.
Le sorprese non finiscono. Mentre circumnavigo l’imponente edificio della biblioteca, mi ritrovo in un parco gigantesco, dove i monumenti agli eroi della rivoluzione sovietica sono oggi per lo più ricoperti di scritte ingiuriose. Il lettone, va detto, non usa l’alfabeto cirillico e in qualche modo somiglia al romeno, il che mi permette di catturare qualche parola qua e là. La pronuncia invece è molto simile al russo e impedisce ogni tentativo di comunicazione improvvisata. La gente qui, penso mentre continuo ad avanzare tra alberi imponenti dai rami rinsecchiti, sembra sempre molto diffidente, sulle sue; ma appena possono parlano volentieri in inglese e si aprono.
Alla libreria Roberts Books trovo un interessante assortimento di saggi e romanzi in inglese. Ne compro uno che parla di un giornalista inglese relegato a Riga perché incapace. Lo leggerò durante il viaggio di ritorno, in aereo: è divertente. In questi giorni in città, invece, mi accompagna uno dei classici della letteratura lettone, uno dei pochi romanzi tradotto anche in italiano, lo struggente Il latte della madre di Nora Ikstena. Esploro il quartiere successivo a quello in cui mi trovo, a nord della città, di cui purtroppo non capisco il nome; e per la prima volta capisco che nei bassifondi la gente povera è davvero povera. Non mi azzardo a tirar fuori la fotocamera, più per una questione di rispetto che per timore: la sicurezza qui a Riga, anche di notte, non è un problema, nonostante in centro si sentano continuamente le sirene della polizia e delle ambulanze.
Le ultime tappe sono purtroppo rovinate dall’effetto Coronavirus. I musei sono improvvisamente chiusi. Quello del cinema, quello della fotografia e quello dell’arte orientale, che avevo tenuto per l’ultimo giorno, sono inaccessibili. Non c’era nessun allarme fino alla notte precedente, ma poi la paura è arrivata anche qui. Assaggio il popolare cioccolato locale, prodotto dalla fabbrica Laima – particolarmente amate sono le praline con fondente e liquore di mirtilli –, e mi faccio un selfie sotto l’omonimo orologio che, scopro grazie alla guida, è il luogo in cui tutti gli abitanti della città si danno appuntamento. Poco lontano, un’imponente colonna con una statua che inneggia alla libertà è il monumento più amato da chi vive a Riga: eretto nel 1935, rappresenta l’indipendenza raggiunta per la prima volta nel 1918. Secondo Wikipedia «durante il periodo dell’Occupazione sovietica portare dei fiori a questo monumento, divenuto simbolo del desiderio di libertà e di indipendenza del popolo lettone, poteva portare all’arresto e alla prigionia nelle prigioni siberiane». Assisto, come tanti turisti, al cambio della guardia, e poco dopo mi concedo l’ennesimo delizioso cappuccino, insieme a un piatto street food a metà tra le pite greche e le focacce turche (4 euro inclusa una Coca Cola), ma ancora più saporito.
È quasi tempo di tornare.
Ho viaggiato in un periodo teoricamente sbagliato, ancora freddo e piovoso, eppure mi sono divertito a scoprire una cultura profondamente diversa da quella europea, nonostante la Lettonia sia da tempo membro della UE e adotti da anni l’Euro come moneta. L’influenza sovietica è ancora forte, eppure si capisce che i lettoni tendano ora più verso occidente. Vestono alla moda, bevono e mangiano come se fossero a Berlino e sono sempre attenti all’aspetto. Riga si conferma un luogo ricco di contraddizioni: ogni quartiere ha una propria storia da raccontare. Impermeabile, cappello e scarpe comode sono caldamente consigliati, se non si viaggia d’estate. I costi sono tutto sommato contenuti e ad avere più tempo ci sarebbero anche le rinomate spiagge e le altre capitali baltiche da visitare. Sarà per la prossima volta, sono convinto che la mia storia con Riga non sia finita qui.
La lavatrice nell’appartamento, ovviamente, continua ad andare.
Matteo Di Giulio