Visitare eticamente i villaggi delle donne giraffa: Mae Hong Son, Thailandia

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non accettate i tour nei villaggi zoo, no al turismo che sfrutta le persone

Mae Hong Son è stata una delle zone del nord della Thailandia che abbiamo amato di più durante i tanti anni nel paese, un po’ per la sua natura spettacolare e un po’ per la presenza di un mix culturale incredibilmente autentico e inusuale. Per chi passa di qui una delle tappe di viaggio più gettonate è la visita ai villaggi tribali dove è possibile ammirare le donne giraffa. Noi non amiamo gli zoo e tendenzialmente diffidiamo delle “esperienze turistiche” dove persone dalle abitudini particolari vengono messe in mostra e spesso sfruttate come animali, quindi ci siamo documentati a lungo prima di decidere se andare o meno a cercare le long neck ladies.

Volete visitare le splendide montagne di Mae Hong Son? Consigliamo di fare del capoluogo di questo distretto la vostra base. La cittadina di Mae Hong Son è interessante e molto ospitale. In questo articolo troverete tante informazioni su cosa fare e dove alloggiare durante la vostra permanenza e in città e nei suoi dintorni.

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Oggi invece vi racconteremo quello che abbiamo scoperto sulla tradizione delle tribù delle donne dal collo lungo, la loro storia e il loro presente. Inoltre vi daremo i nostri consigli personali su come muovervi per visitare in autonomia i villaggi più autentici e contribuire alla loro sopravvivenza senza incappare nelle trappole più turistiche, ovvero dei finti villaggi creati per i visitatori (che sono stati a lungo veri centri di sfruttamento per queste donne).

Ovviamente questi consigli sono frutto della nostra esperienza in loco e della nostra decisione di non condannare di base la tradizione degli anelli al collo (che non è nata certo per scopi turistici ma è comunque ai nostri occhi un retaggio culturale poco felice nei confronti della figura femminile) ma di cercare di comprenderla e conoscerla senza incentivarne però lo sfruttamento per scopi economici.

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Le donne giraffa e la storia delle tribù kayan

In Thailandia le donne dal collo lungo appartengono alla minoranza etnica “Kayan”, nota anche come il popolo della “Tribù della collina dal collo lungo”. Da decenni la loro presenza nel nord del paese ha stimolato l’affluenza turistica come “must-do” per il visitatore, la classica tappa veloce nella giungla per togliersi la voglia di esperienze forti ed esotiche. Chiaramente dietro a questa abitudine (incentivata a lungo da guide famose come Lonely Planet e trasmissioni televisive di viaggio) ci sono storie brutali e situazioni di sfruttamento molto gravi.

Conoscendo la storia di queste popolazioni capirete che per lungo tempo visitare queste persone è stato controverso e quantomeno ci sono alcune attività turistiche che coinvolgono le popolazioni locali che non sono tutte rose e fiori.

In particolare quando citiamo le donne dal collo lungo stiamo parlando del gruppo etnico red karen e della sottocultura tribale kayan nota anche come padovang in Myanmar, paese d’origine di questa particolare etnia migrata poi in Thailandia. I red karen non sono da confondere con il gruppo etnico white karen che è invece originario della Thailandia e che ha quindi la piena cittadinanza thailandese.

Inizialmente i kayan sono emigrati per necessità (sono fuggiti per salvarsi la vita da pesanti persecuzioni) dallo stato Kayah del Myanmar, appena oltre il confine thailandese. Questo popolo infatti era stato da decenni contestato e vessato dal governo birmano, per il forte desiderio di autonomia a lungo espresso dalle popolazioni locali e dai loro rappresentanti politici. Con lo scoppiare di lotte sanguinose moltissimi kayan si sono rifugiati in Thailandia, il paese non li ha accolti come rifugiati politici per molto tempo e loro sono stati a lungo immigrati clandestini in posizione molto precaria.
Però il governo tailandese ha tollerato la loro presenza… e qualcuno ha anche visto in questa situazione una possibilità di fare soldi invitando i turisti. Da questo momento il governo locale ha iniziato a vedere più di buon occhio la permanenza dei red karen e sono stati allestiti diversi villaggi prefabbricati da mostrare ai visitatori dove le donne giraffa avrebbero potuto vendere prodotti di artigianato e farsi fotografare e gli organizzatori guadagnare dal pagamento di un biglietto d’ingresso. Insomma un villaggio senz’anima in uno zoo senza sbarre… anzi per molte donne le sbarre c’erano ma erano invisibili perché essendo sprovviste di documenti e permesso di soggiorno nel paese non avevano alternative di sopravvivenza se non restare a “mostrarsi” come personaggi esotici per poter sussistere.

Molti racconti evidenziano infatti come la minoranza etnica fosse sfruttata e obbligata a rimanere in Thailandia senza però poter legalmente vivere una vita da cittadini e ovviamente senza poter tornare nel proprio paese d’origine per il perdurare delle diatribe politiche, tutto questo versando nella più totale povertà visto che i guadagni provenienti dai turisti finivano soprattutto nelle tasche di politici corrotti.

Quindi la tradizione delle donne giraffa di portare anelli al collo per farlo sembrare lunghissimo (retaggio culturale antico e fortemente voluto da molte donne kayan) ha innescato un pericoloso meccanismo che ha reso interi villaggi ostaggi del corrotto sistema locale per molti anni. Le origini di questo ornamento femminile non sono certe ma si tramanda che fosse una forma di protezione contro le aggressioni di animali feroci (soprattutto le tigri) che uccidevano soprattutto con morsi alla giugulare le donne che raccoglievano frutta e verdura nella giungla. Può sembrare strano ma molte donne che sono riuscite a evadere questo sistema hanno raccontato di aver dovuto abbandonare la tradizione degli anelli contro la loro volontà e rinunciare quindi a quella che per loro era un’identità importante per poter lasciare i villaggi-zoo e cercare fortuna entrando illegalmente in altri paesi (perché rimuovendo le collane non erano più “utili” al sistema e riuscivano ad allontanarsi più facilmente).

Negli ultimi anni però nelle colline che circondano Mae Hong Son molti villaggi veri e propri dei kayan, dove i migranti e le loro famiglie vivono, sono cresciuti e si sono strutturati in autonomia per mostrare la loro quotidianità e le loro tradizioni in modo più autentico. In alcuni c’è una piccola tassa per entrare (ma è autogestita dagli abitanti) e alcune donne che portano gli anelli al collo producono e vendono il loro artigianato. In diverse interviste e dai racconti di reporter che hanno vissuto a lungo in questi luoghi emerge che in queste situazioni non ci sono pressioni esterne per restare nei villaggi e continuare la tradizione di aggiungere anelli d’oro al collo delle donne. Ovviamente i karen rossi incentiveranno la tradizione anche per motivi economici ma quantomeno le donne lavorano per la loro sussistenza e lo fanno integrate nella vita di villaggio, dove vivono vendendo gioielli tradizionali e stoffe tessute a mano.

Dal 2012 infatti a queste popolazioni di rifugiati è stato ufficialmente permesso di tornare in patria nello Stato di Kayah in Myanmar ma molti sono rimasti nella speranza di ottenere per figli e nipoti la cittadinanza thailandese, un paese dove l’economia è molto più florida e le possibilità di una vita migliore sono molto maggiori che in Myanmar.

Migliori villaggi Long Nek a Mae Hong Son: esperienze autentiche ed etiche

I villaggi dove la popolazione dei red karen ha avuto il permesso governativo di vivere e accogliere i turisti in autonomia sono pochi, il più importante è senza dubbio Huay Pu Keng, un delizioso angolo di giungla sulla riva del fiume dove è possibile vedere il villaggio e chiacchierare in autonomia con i locali senza avere la percezione di essere all’interno di uno show per stranieri. Gli abitanti sono accoglienti nonostante ovviamente si abbia la percezione di invadere la loro privacy, noi abbiamo trovato comunque l’esperienza piacevole e a quel che abbiamo visto si tratta a tutti gli effetti di una situazione eticamente accettabile dal punto di vista turistico.

Siamo arrivati in autonomia con il nostro motorino ai confini del villaggio partendo da Mae Hong Son e seguendo questo itinerario che porta a Huay Pu Keng ma dall’altra parte del fiume (segnaliamo che la strada è piuttosto sconnessa e a tratti non asfaltata). In uno spiazzo erboso abbiamo lasciato il nostro mezzo e abbiamo attraversato il fiume grazie a dei bambini che ci hanno portati con la canoa del villaggio dall’altra parte del corso d’acqua (c’è sempre qualcuno di vedetta che si occupa di trasportare eventuali visitatori e abitanti del villaggio di ritorno). Una volta arrivati abbiamo chiesto informazioni ad alcune persone che si trovavano all’inizio della strada principale del villaggio, ci hanno detto che potevamo entrare e visitare la zona, ci hanno indicato la chiesa e la scuola locale e ci hanno detto che potevamo fare fotografie senza problemi.

Siamo stati avvertiti che per i visitatori ci sarebbe stata richiesta una tassa di ingresso che sarebbe andata alla comunità Kayan del villaggio stesso (infatti poco dopo un ragazzino ci ha chiesto di pagare il biglietto di 250 baht e ci ha dato una ricevuta con tanto di timbro!). Il villaggio è piccolo, solo un paio di vie ma veramente molto gradevole e scenico, c’è una “strada” principale con belle case in bambù, molto povere ma ben tenute ed organizzate con tante belle piante a renderle ancora più ospitali. Attorno alle case come in molti villaggi delle tribù locali ci sono piccoli templi domestici, recinti di animali, orti e bottegucce. Ci sono alcuni posti dove prendere un tè o mangiare uno snack (noi abbiamo fatto merenda qui per contribuire ulteriormente all’economia del villaggio) e diversi negozi di artigianato gestiti principalmente dalle donne dal collo lungo. Abbiamo fatto qualche foto al villaggio cercando di fare scatti poco invasivi e privilegiando le persone con le quali ci siamo fermati a parlare. Insieme a noi nel villaggio c’era solo una famiglia di visitatori stranieri e l’atmosfera era molto piacevole. Nessuno ci ha spinto a fare acquisti o a fare fotografie alle long neck ladies, semplicemente ognuno nel villaggio faceva la sua vita e noi ci siamo goduti la passeggiata prima di riattraversare il fiume e rientrare a Mae Hong Son.

Segnaliamo inoltre che se avete voglia di proseguire il vostro giro in moto tra le montagne potrete riprendere il vostro mezzo e andare ancora avanti lungo la strada che avete percorso all’andata seguendo il fiume, il percorso è molto carino e offre dei bei panorami; inoltre attraverserete un altro piccolo villaggio e arriverete al Pai – Surin Bridge, il ponte sospeso che precede l’ultimo check point militare thailandese prima del confine birmano.

Un altro villaggio rurale dove troverete le donne giraffa che non è turisticamente sfruttato e dove c’è vita locale è Ban Nai Soi, forse il più grande insediamento di rifugiati di origine birmana della regione. Ospita prevalentemente Karen e comprende una cittadina vera e propria con case più strutturate (questo è uno dei primi villaggi di immigrati dalla Birmania e molte famiglie sono qui da più generazioni!), una parte più rurale e povera con case in bambù (dove vivono anche alcune donne dal collo lungo che vendono prodotti locali) e una parte militarizzata chiusa al pubblico che gestisce il passaggio dei rifugiati e il loro inserimento nel paese. Non si paga per accedere al villaggio (ma c’è una cassetta per le donazioni dei visitatori nella parte di villaggio rurale). Potrete raggiungere Nai Soi in motorino, la strada (come sempre a Mae Hong Son) è un po’ disastrata ma molto bella e attraversa splendide risaie.

Altre zone dove vedere le popolazioni karen e le donne kayan sono Mae Hong Son Long Neck Karen Market di Pha Bong che però è solo una serie di bancarelle e attrazioni turistiche che non consigliamo di visitare. Nei dintorni di Pai invece troverete il Long Neck Karen Village una location ancora più costruita che vede molti visitatori, soprattutto cinesi e che è a nostro parere ancora meno interessante del precedente per totale mancanza di atmosfera.

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